Sentenza n. 54 del 1991

 

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SENTENZA N. 54

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giovanni CONSO                                              Presidente

Prof. Ettore GALLO                                                   Giudice

Dott. Aldo CORASANITI                                              “

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, ultima proposizione, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 15 maggio 1990 dal Tribunale di Savona nel procedimento su istanze di fallimento proposte da Ottoboni Monica ed altri contro la Ditta Fratelli Fontana, iscritta al n. 504 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 1990;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice relatore Francesco Greco;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Ottoboni Monica ed altri hanno chiesto al Tribunale di Savona di dichiarare il fallimento della Ditta Fratelli Fontana. Con ordinanza del 15 maggio 1990 (R.O. n. 504 del 1990) il Tribunale ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare), nella parte in cui, dopo avere escluso dalla procedura fallimentare i piccoli imprenditori, dispone che "in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali".

Il giudice remittente, premesso che nella fattispecie si tratta di una piccola società di fatto, il cui capitale si compone delle scorte consistenti in confezioni e delle attrezzature indispensabili per la vendita, e che il locale in cui si esercita l'attività commerciale è condotto in locazione, ha rilevato che la interpretazione letterale della disposizione de qua, secondo cui la esclusione dal fallimento riguarda solo i piccoli imprenditori individuali e non anche le piccole imprese sociali, importa violazione dell'art. 3 della Costituzione. Infatti, applicandola alle società di persone, per le quali vige la regola della illimitata responsabilità patrimoniale dei soci, si crea una disparità di trattamento fra il piccolo imprenditore individuale, non soggetto al fallimento, ed i soci illimitatamente responsabili di una impresa sociale, anch'essi imprenditori, ai quali ex art. 147 legge fallimentare si può estendere il fallimento della società. La disparità di trattamento sarebbe tanto più grave in quanto, per giurisprudenza costante della Cassazione e dei giudici di merito, non sono soggetti al fallimento né gli artigiani né le società artigiane quando le dimensioni dell'impresa non superano certi limiti. Si fa specifico richiamo alle sentenze della Corte costituzionale nn. 94 del 1970 e 570 del 1989.

2. - Nel giudizio dinanzi a questa Corte è intervenuta l'Avvocatura Generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per la inammissibilità o la infondatezza della questione.

Ha osservato che la figura della piccola società commerciale è ignota al nostro ordinamento, che riserva solo al piccolo imprenditore individuale un regime differenziato, incompatibile con quello proprio delle società commerciali; che le realtà poste a confronto non sono omogenee in quanto anche la posizione del socio illimitatamente responsabile non è riconducibile a quella dell'imprenditore; che, comunque, la disciplina de qua risponde ad una valutazione di politica economico-sociale incensurabile in sede di legittimità costituzionale.

 

Considerato in diritto

 

1. - La Corte è chiamata a verificare se l'art. 1, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui, ai fini dell'esclusione dalla procedura fallimentare, stabilisce che in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali, violi l'art. 3 della Costituzione per la disparità di trattamento che creerebbe tra i piccoli imprenditori individuali e le piccole imprese commerciali, nonché tra queste ultime e le società artigiane, per consolidata giurisprudenza, escluse dal fallimento.

2. - La questione è inammissibile.

La sottoposizione alla procedura fallimentare delle società anche se di fatto e di modeste dimensioni trova adeguata giustificazione nella presunzione di speculazione e di profitto che ne ha determinato la costituzione. In via generale, quindi, la differenziazione tra le società ed il piccolo imprenditore individuale non è irrazionale.

2.1. - Non sussiste nemmeno omogeneità tra la situazione del piccolo imprenditore e quella dei soci di una società di persone anche se di modeste dimensioni. Invero, è soggetta al fallimento solo la società e ai soci illimitatamente responsabili può solo estendersi il suo fallimento. In altri termini, il fallimento del socio segue per legge quello della società, mentre rimane persino irrilevante il fatto che egli non sia imprenditore commerciale e versi o meno in stato di insolvenza. La estensione del fallimento è diretta ad impedire che il socio possa compiere atti di disposizione del suo patrimonio che, invece, deve servire a soddisfare i creditori sociali.

3. - Il diverso trattamento fatto alla società artigiana trova giustificazione nella natura e nel carattere di questo tipo di società, la quale gode di uno status particolare ed è soggetta ad una disciplina peculiare, la quale si applica, però, fino a che le sue dimensioni siano modeste. Se essa si ingrandisce, se la sua organizzazione si espande fino ad assumere le dimensioni di una vera e propria impresa commerciale o industriale, se il suo guadagno, in altri termini, assume i connotati del profitto, perde le caratteristiche di impresa artigiana ed è soggetta al fallimento in quanto è ritenuto prevalente il fine della speculazione e del profitto. Ciò avviene, del resto, anche per l'artigiano il quale è soggetto a fallimento quando si espande ed organizza la produzione su basi speculative.

4. - Per quanto riguarda il precedente giurisprudenziale invocato (sentenza Corte cost. n. 579 del 1989) si osserva che esso ha riguardato la legittimità costituzionale della norma della legge fallimentare che stabiliva un criterio fisso per la esclusione dalla soggezione al fallimento del piccolo imprenditore, cioè il limite di lire 900.000 del capitale investito nelle aziende, divenuto addirittura irrisorio per il mutamento dei valori monetari successivi all'emanazione della legge (1942). Tuttavia, alcune considerazioni svolte in quella sentenza possono valere anche per le società commerciali di modeste dimensioni. E cioè quelle relative alla entità dell'impresa, alle dimensioni della sua organizzazione e dei mezzi impiegati, agli effetti ed alle ripercussioni del dissesto nell'economia nazionale generale, alla utilità del ricorso alla procedura fallimentare per gli stessi creditori specie in relazione all'esiguità del patrimonio attivo, per la sua durata e le spese e, in genere, per la sua complessità, in relazione alla esiguità dell'attivo con il conseguente rischio della mancata realizzazione delle finalità di tutela degli interessi dei creditori.

Le dette considerazioni, però, attengono alla sfera della discrezionalità del legislatore perché rientrano nell'ambito della generale politica economica e giudiziaria e a lui spetta la scelta di una delle varie soluzioni possibili.

Pertanto la questione va dichiarata inammissibile.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, ultima proposizione, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Savona con la ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.

 

Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI –Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria il 6 febbraio 1991.